.png)
Quando Joan Thiele lascia il palco al termine del suo concerto, tra gli applausi e le luci che si abbassano, parte una canzone che spiazza e accoglie: Abbracciala, abbracciali, abbracciati di Lucio Battisti. Un richiamo che non suona come un semplice omaggio, ma come una dichiarazione di intenti. C’è un mondo che si riflette nell’altro: Anima Latina non è solo un disco, ma un codice poetico che attraversa decenni e identità, una mappa emotiva, irregolare e profonda. Joan la evoca e, nel farlo, si mette da parte. Non c’è retorica, c’è umiltà. E un’intuizione: che il futuro della musica passa per chi sa restare in ascolto.
Joan Thiele è un’artista che appare nello stesso tempo nomade, luminosa, fragile, intellettuale e viscerale. Una creatura di confine si potrebbe dire che sfugge alle definizioni e rifiuta i riflettori troppo diretti, preferendo penombre intime e colori cangianti. Il suo ultimo disco, Joanita, è arrivato dopo un tempo di riflessione, senza urgenze di algoritmo. Un disco che accoglie radici e visioni, esperienze e silenzi, tra riferimenti alla musica d'autore, alla psichedelia elegante degli anni Settanta, alle sonorità latine e alle produzioni elettroniche più raffinate.
Classe 1991, nata a Desenzano del Garda da madre napoletana e padre svizzero-colombiano, Joan è cresciuta viaggiando tra l’Italia e la Colombia, trovando in questa geografia discontinua la sua cifra umana e artistica. «Frequentare altri posti mi aiuta a relativizzare», dice. E relativizzare, oggi, è un gesto raro. Implica la capacità di mettersi in discussione, di muoversi tra mondi senza cercare per forza di appartenere. Di restare — come i suoi brani — in equilibrio tra il personale e il collettivo, tra introspezione e ritmo.
A Sanremo 2025 si è presentata con Eco, una canzone intensa, elegante, tra le più raffinate in gara. Un brano che parla al fratello, ma anche a tutti noi: delle nostre paure, dei legami, della necessità di attraversare la fragilità. La scrittura è nitida, l’interpretazione misurata, come se ogni parola pesasse un grammo in più del dovuto. Eppure, vola. L'Accademia della Crusca l’ha definita «seria, semplice ed elegante». Tre aggettivi che raccontano bene la sua cifra.
Joan ha iniziato giovanissima con una cover di Hotline Bling di Drake nel 2015, ma ha subito virato verso un percorso personale, fuori dalle rotte più prevedibili. Dal primo album Tango (2018) fino al più recente Joanita, passando per collaborazioni con Mace, Venerus, Myss Keta ed Elodie (con cui ha vinto un David di Donatello per la canzone Proiettili), ha costruito un universo sonoro riconoscibile e insieme cangiante. A tratti vintage, a tratti avanguardista. Sempre sospeso tra istinto e costruzione.
C’è qualcosa di cinematografico nel modo in cui compone e canta. Non tanto per un’estetica patinata, quanto per quel senso di sospensione, di attesa, di sguardo che si allunga oltre la canzone. I primi brani dell’album — La forma liquida, Veleno, Bacio sulla fronte — sembrano usciti da un film di Tarantino o da una colonna sonora di Morricone: ritmo ipnotico, tensione latente, sensualità trattenuta. Joan Thiele ha assorbito queste atmosfere da fonti dirette, studiando i B-movie, la library music, le colonne sonore dei nostri compositori dimenticati, cercando un suono che fosse suo e, insieme, radicato in una memoria culturale collettiva.
Tutto è iniziato con un sogno, letteralmente: ha sognato di fare musica con Piero Umiliani — compositore, polistrumentista e direttore d’orchestra, jazzista di formazione, incredibile sperimentatore, pioniere dell’elettronica, autore di colonne sonore rimaste scolpite nella storia — scomparso nel 2001. Da quel sogno è partita una ricerca concreta. Joan Thiele ha contattato le figlie del musicista, Elisabetta e Alessandra, e grazie a loro è entrata in quello che era stato il suo studio. Ha messo le mani sui suoi strumenti, esplorato l’archivio, scelto frammenti da reinterpretare o campionare, riportando in vita materiali sonori che oggi sentiamo familiari, ma di cui spesso ignoriamo l’origine.
Non è un semplice omaggio: Tramonto si muove sulle note di Crepuscolo sul mare, già passata da Ocean’s Twelve a Lil Yachty, ma qui restituita alla sua malinconia originaria. Volto di donna viene scomposto e riassemblato in una ballata marina che sembra galleggiare senza peso, mentre Momento ritmico, tratto da un disco di “effetti musicali”, diventa il fondale evocativo di Acqua blu, tra corpi bagnati dal sole e un tempo dilatato e sospeso.
Tutto l’album è attraversato da questa sensibilità: non è solo un recupero della golden age della nostra musica da film, ma una reinvenzione personale e vitale. Come se Thiele volesse restituirci un tempo — quello della lentezza, dell’ambiguità, della sensualità — che il presente ci ha sottratto. È qui che il gusto diventa politico. E la femminilità si rivela come forza dolce e resistente. Lana e marmo, come dice lei stessa.
Nel suo modo di stare nel mondo — tra interviste sussurrate, impegno e leggerezza, ironia e profondità — Joan Thiele rappresenta una figura sempre più necessaria: quella dell’artista che non si limita a produrre contenuti, ma che cerca un senso. Che esplora. Che non ha paura di sparire per poi tornare con qualcosa di vero. Perché, come canta in Eco, la paura va fissata negli occhi. E poi bang bang. Si spara al centro.
Nel saluto finale del concerto, sulle note di Battisti, il cerchio si chiude e si apre insieme. Come a dire che ogni fine è un passaggio, ogni ritorno è un atto d’amore. Abbracciala, abbracciali, abbracciati. È questo, forse, il vero invito di Joan Thiele: riconoscerci in quel gesto semplice e radicale. E lasciare che la musica faccia il resto.
Joan Thiele: Latin Voices and Electric Silences
When Joan Thiele steps off the stage at the end of her concert, amid applause and dimming lights, a song begins to play that both surprises and embraces: Abbracciala, abbracciali, abbracciati by Lucio Battisti. It doesn’t feel like a mere tribute—it feels like a statement of intent. One world reflects another: Anima Latina is not just an album but a poetic code that transcends decades and identities, an emotional map, irregular and profound. Joan evokes it, and in doing so, steps aside. There’s no rhetoric, only humility. And an intuition: that the future of music belongs to those who know how to truly listen.
Joan Thiele is an artist who seems at once nomadic, radiant, fragile, intellectual, and visceral. A border-crossing figure, one might say—elusive, rejecting the harsh spotlight in favor of intimate shadows and shifting tones. Her latest album, Joanita, arrived after a period of reflection, free from algorithmic urgency. It embraces roots and visions, experiences and silences, referencing Italian songwriting, the elegant psychedelia of the ’70s, Latin rhythms, and the most refined electronic production.
Born in 1991 in Desenzano del Garda to a Neapolitan mother and a Swiss-Colombian father, Joan grew up between Italy and Colombia, drawing from this disjointed geography her unique human and artistic identity. “Spending time in other places helps me put things in perspective,” she says. And in today’s world, perspective is rare. It requires self-questioning, moving between worlds without needing to belong. It means staying—in her songs as well—in balance between the personal and the collective, between introspection and rhythm.
At Sanremo 2025, she presented Eco, an elegant and intense song, among the most sophisticated in the competition. A song addressed to her brother, but also to all of us: about fear, connection, and the need to move through vulnerability. Her writing is clear, her delivery measured, as if every word carried one gram more than expected. Yet it soars. The Accademia della Crusca described her as “serious, simple, and elegant.” Three adjectives that define her well.
Joan began young, releasing a cover of Drake’s Hotline Bling in 2015, but quickly veered onto a more personal path, away from the predictable. From her debut album Tango (2018) to the recent Joanita, and through collaborations with Mace, Venerus, Myss Keta, and Elodie (with whom she won a David di Donatello for the song Proiettili), she has built a sonic universe that is both distinctive and ever-shifting. At times vintage, at times avant-garde. Always suspended between instinct and craft.
There’s something filmic in the way she writes and sings. Not in a polished or glossy sense, but in that feeling of suspension, of anticipation, of a gaze that extends beyond the song. The first tracks on the album—La forma liquida, Veleno, Bacio sulla fronte—feel like they’ve stepped out of a Tarantino film or a Morricone score: hypnotic rhythms, latent tension, restrained sensuality. Joan Thiele absorbed these moods directly, delving into B-movies, library music, and the forgotten soundtracks of Italian composers, searching for a sound that is her own yet rooted in shared cultural memory.
It all began with a dream—literally. She dreamed of making music with Piero Umiliani: composer, multi-instrumentalist, orchestra conductor, jazz musician, incredible innovator, electronic music pioneer, and soundtrack legend, who passed away in 2001. From that dream, a real-life journey began. Joan Thiele reached out to Umiliani’s daughters, Elisabetta and Alessandra, and through them, entered what had been his studio. She touched his instruments, explored his archives, selected fragments to reinterpret or sample—bringing back to life sounds that feel familiar today, though their origins often go unrecognized.
This is not a simple tribute. Tramonto builds on the notes of Crepuscolo sul mare, which has traveled from Ocean’s Twelve to Lil Yachty, but here regains its original melancholy. Volto di donna is broken down and reassembled into a weightless sea ballad, while Momento ritmico, drawn from an album of “musical effects,” becomes the evocative backdrop of Acqua blu, filled with sunlit bodies and a dilated, suspended time.
The whole album is infused with this sensitivity—not just a revival of our soundtrack golden age, but a personal, vital reinvention. As if Thiele wanted to return to us a kind of time—slow, ambiguous, sensual—that the present has stolen away. This is where taste becomes political. And femininity reveals itself as a gentle and resilient force. Wool and marble, as she herself puts it.
In the way she moves through the world—between whispered interviews, thoughtful engagement, lightness and depth—Joan Thiele stands out as an increasingly necessary figure: an artist who doesn’t just produce content, but searches for meaning. Who explores. Who isn’t afraid to disappear for a while and come back with something real. Because, as she sings in Eco, fear must be looked straight in the eye. And then bang bang. Aim for the center.
At the end of the concert, as Battisti’s voice fills the room, the circle closes—and opens again. As if to say that every ending is a threshold, every return an act of love. Abbracciala, abbracciali, abbracciati. That, perhaps, is Joan Thiele’s true invitation: to recognize ourselves in that simple, radical gesture. And let the music do the rest.
Credit Ph
Faremusic Magazine, CC BY 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0>, via Wikimedia Commons
Mario De Carli, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons