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michelangelo tagliente 

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Giovanna Mezzogiorno, il cinema come destino e come scelta

2025-08-07 21:29

michelangelo tagliente

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Giovanna Mezzogiorno, il cinema come destino e come scelta

Io non posso fare nulla senza decine di persone prima di me

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Aveva appena cinque anni quando ha messo piede per la prima volta su un set, accanto al padre Vittorio. Non per caso, ma per eredità. Non per gioco, ma per ascolto. La memoria di quel giorno, come confida nel libro Ti racconto il mio cinema, non è una favola d’infanzia ma il primo tassello di una consapevolezza: che il cinema, prima ancora di diventare un mestiere, era un linguaggio familiare, una grammatica emotiva già scritta nel corpo.

Giovanna Mezzogiorno ha costruito la sua carriera senza clamore, scegliendo ruoli complessi, spesso controcorrente, affermandosi come una delle interpreti più intense e riconoscibili del cinema italiano. Figlia d’arte, sì, ma mai figlia di scorciatoie. Dopo il debutto con Il viaggio della sposa di Sergio Rubini, a soli 19 anni, lavora con registi come Michele Placido, Ferzan Özpetek, Cristina Comencini. Il successo arriva presto, ma non diventa mai una prigione: piuttosto, un banco di prova. L’amore per il palcoscenico, coltivato con Peter Brook, le dà quella disciplina silenziosa che la accompagna anche nei set più frenetici. Sa cosa significa stare in scena, ma soprattutto sa cosa c’è dietro una scena: interi reparti tecnici, equilibri precisi, gerarchie non scritte da rispettare. Il cinema è un lavoro collettivo, e Mezzogiorno lo ha sempre vissuto così: come un organismo vivo, dove ognuno ha un posto ma nessuno è il centro.

Riservata, schiva, lontana dalle derive dello star system, ha scelto Torino invece di Roma, e la maternità invece della rincorsa ai ruoli. “Quando sono nati i miei figli, mi sono fermata”, racconta con lucidità, senza bisogno di giustificazioni. Ha smesso di recitare per un periodo, ma non ha mai smesso di osservare, di ascoltare, di prendere appunti su quella macchina chiamata cinema che continua ad affascinarla non solo per ciò che appare, ma per ciò che resta nascosto: il tempo, la fatica, l’artigianato.

E in questo tempo presente, dove la bellezza femminile viene ancora troppo spesso raccontata come una condizione da mantenere, più che da abitare, Giovanna Mezzogiorno ha scelto di esporsi. Di raccontarsi, sì, ma con misura. Con il libro, con un importante cortometraggio, ma prima ancora con uno sguardo che ha sempre saputo distinguere tra visibilità e valore.

Nel suo libro Ti racconto il mio cinema, pubblicato da Mondadori, Giovanna Mezzogiorno ha scelto una prospettiva inusuale: non l’autobiografia autocelebrativa, ma un piccolo manuale sentimentale e tecnico, rivolto soprattutto ai più giovani. L’idea non è partita da lei, ma l’ha accolta con entusiasmo, scegliendo di spostare l’attenzione da sé ai meccanismi del set, agli ingranaggi nascosti che fanno girare la macchina del cinema.

Non c’è spazio per la vanità né per i racconti patinati: il libro è una dichiarazione d’amore per quei mestieri invisibili che rendono possibile la magia dell’immagine. Dalla luce al suono, dal trucco ai costumi, dalla segreteria di edizione ai macchinisti: “Io non posso fare nulla senza decine di persone prima di me”, scrive. È una frase che sembra banale, ma che detta da chi ha vissuto trent’anni di set acquista la dignità di una presa di posizione.

Giovanna conosce bene il peso e il valore del lavoro collettivo. Sa che ogni scena girata comporta tempo, investimenti, errori da ridurre al minimo. Sa che il cinema è una catena di precisione dove ognuno ha il proprio ruolo e i confini vanno rispettati. Non è solo questione di disciplina: è una forma di rispetto per chi spesso rimane fuori campo, eppure contribuisce tanto quanto l’attore a creare un film.

Il libro non è nostalgico, né pedagogico. È attraversato da una consapevolezza matura, quasi “artigiana”. Lo sguardo di Giovanna è quello di chi ha attraversato le trasformazioni del cinema senza lasciarsene travolgere: riconosce il cambiamento tecnologico, ma rivendica il valore umano del lavoro sul set, l’energia che si genera nel tempo della preparazione, nella cura della scena, nella fatica condivisa.

E proprio in questa cura si intravede la sua visione, a tratti quasi registica. Forse è per questo che la scrittura è arrivata adesso, come naturale prosecuzione di un percorso: Ti racconto il mio cinema non è un punto d’arrivo, ma un gesto di restituzione. Un modo per rendere visibile ciò che resta spesso fuori campo. Una scelta di chiarezza in un tempo di confusione.

 

Unfitting. Quando il corpo diventa bersaglio

Unfitting segna l’esordio di Giovanna Mezzogiorno alla regia e alla sceneggiatura. In nove minuti racconta, con uno sguardo lucido e personale, una realtà quotidiana e feroce: il giudizio costante sul corpo delle donne. Non quello gridato sui social o amplificato dalle cronache, ma quello più sottile e persistente, che agisce nei silenzi, nei corridoi del potere, anche dietro le quinte del cinema.

Il film racconta la storia di un’attrice, interpretata da Carolina Crescentini, che si trova a dover affrontare una sfilata di commenti, allusioni, crudeltà gratuite. Regista, produttore, agente, ufficio stampa: ognuno ha qualcosa da dire, un consiglio non richiesto, una critica mascherata da preoccupazione. Solo un giovane attore, interpretato da Massimiliano Caiazzo, riesce a spezzare l’incantesimo, a offrire una voce fuori dal coro. È una parabola amara, ma anche ironica. Non c’è autocommiserazione, piuttosto una lucidità disarmante: Unfitting mette in scena un sistema tossico con leggerezza chirurgica, evitando toni didascalici e lasciando che siano i silenzi, gli sguardi, i non detti a parlare più delle parole.

Il corto nasce da un’idea di Silvia Grilli, direttrice di Grazia, ed è prodotto da One More Pictures in collaborazione con Bulgari, marchio attento alle tematiche di inclusione ed empowerment femminile. Ma soprattutto nasce da una ferita vera. Mezzogiorno, dopo le gravidanze, è stata esclusa da certi ruoli, messa da parte, giudicata per un corpo che non rispondeva più ai criteri imposti da un’estetica dominante. Un corpo reale, che invecchia, che cambia, che vive. Un corpo che non andava più bene.

In Unfitting, però, c’è qualcosa in più di una denuncia. C’è la volontà di rovesciare la narrazione, di mostrare come il body shaming non sia solo una questione privata o estetica, ma un meccanismo culturale profondamente radicato. “È una dittatura estetica”, dice Mezzogiorno, “che mina l’autostima e le certezze di molte donne, non solo nel cinema, ma in tutti gli ambiti della vita”. E aggiunge: “Bisogna riderne. Non per sminuire, ma per non lasciarsi sconfiggere”. La risata, allora, diventa atto di resistenza. Uno strumento per disinnescare la violenza, per riconsegnare il corpo alla sua complessità, alla sua libertà.

Unfitting non è solo un gesto artistico, è anche un atto politico. Una voce che si alza contro un sistema che pretende che le donne siano sempre adatte, sempre giovani, sempre desiderabili secondo canoni stabiliti da altri. È un invito, rivolto a tutte e tutti, a rompere la complicità silenziosa con cui troppo spesso si accettano questi standard. A rifiutare l’idea che ci sia un solo modo giusto di apparire, e quindi di essere.

Se il cinema può ancora avere un ruolo educativo e trasformativo, è in opere come questa che lo dimostra. Breve, essenziale, tagliente, Unfitting non cerca l’applauso facile, ma semina dubbi, apre spiragli. E dà forma, con pudore e coraggio, a una nuova narrazione del corpo femminile. Una narrazione finalmente libera, imperfetta, e proprio per questo necessaria.

 

Ulteriori info per il cortometraggio et libro:

Nel 2023 debutta come regista e sceneggiatrice con il cortometraggio Unfitting (Premio Globo d'Oro 2024 dalla Stampa Estera come Miglior Cortometraggio dell’anno )

Nel 2024 il suo primo libro: "Ti racconto il mio cinema" di Giovanna Mezzogiorno - Edito da Mondadori Libri per Ragazzi (Premio Internazionale Flaiano Speciale 2024)

 

INFO Giovanna Mezzogiorno:
https://www.saverioferragina.com/giovanna-mezzogiorno/

 

Giovanna Mezzogiorno: Cinema as Destiny and as Choice

She was just five years old when she first set foot on a film set, next to her father Vittorio. Not by chance, but by inheritance. Not as a game, but as a form of listening. The memory of that day, as she recounts in the book Ti racconto il mio cinema (Let Me Tell You About My Cinema), is not a childhood fairytale but the first step in a growing awareness: that cinema, even before becoming a profession, was already a familiar language, an emotional grammar written into her body.

Giovanna Mezzogiorno has built her career without clamour, choosing complex, often unconventional roles, and establishing herself as one of the most intense and recognisable actresses in Italian cinema. A daughter of the arts, yes—but never one who took shortcuts. After her debut in The Bride’s Journey by Sergio Rubini at just 19, she worked with directors like Michele Placido, Ferzan Özpetek, and Cristina Comencini. Success came early, but it never became a prison—rather, a testing ground. Her love for the stage, nurtured with Peter Brook, gave her a quiet discipline that followed her onto even the most chaotic sets. She knows what it means to be on stage, but above all she knows what lies behind the scenes: entire technical departments, delicate balances, unwritten hierarchies to be respected. Cinema is a collective effort, and Mezzogiorno has always experienced it that way: as a living organism, where everyone has a role but no one is the centre.

Reserved, elusive, far from the trappings of the star system, she chose Turin over Rome, and motherhood over the constant pursuit of roles. “When my children were born, I stopped,” she says with clarity, without needing to justify herself. She stepped away from acting for a while, but she never stopped observing, listening, taking notes on that machine called cinema, which continues to fascinate her not only for what is seen, but for what remains hidden: time, effort, craftsmanship.

And in this present time, where female beauty is still too often portrayed as something to maintain rather than inhabit, Giovanna Mezzogiorno has chosen to speak out. To share her story, yes—but with measure. Through a book, a powerful short film, but first and foremost with a gaze that has always known how to distinguish between visibility and value.

In Ti racconto il mio cinema, published by Mondadori, Mezzogiorno adopts an unusual perspective: not a self-celebratory memoir, but a small sentimental and technical handbook, aimed especially at younger generations. The idea wasn’t hers, but she embraced it enthusiastically, choosing to shift the focus from herself to the workings of the set—the hidden gears that make the cinematic machine run.

There is no space for vanity or glamorous tales: the book is a declaration of love for the invisible trades that make the magic of film possible. From lighting to sound, from makeup to costumes, from script supervision to grips: “I can’t do anything without dozens of people before me,” she writes. A seemingly simple sentence, but one that gains the weight of a manifesto when spoken by someone with thirty years of set experience.

Giovanna knows well the weight and value of collective labour. She understands that every scene requires time, investment, and minimal margin for error. She knows that cinema is a chain of precision, where everyone has a role and boundaries must be respected. It’s not just about discipline—it’s a form of respect for those who remain off-camera but contribute just as much as the actor to the creation of a film.

The book is neither nostalgic nor didactic. It is imbued with a mature, almost “artisanal” awareness. Giovanna’s gaze is that of someone who has witnessed cinema’s transformations without being swept away by them: she acknowledges the impact of technological change but defends the human value of work on set—the energy that comes from preparation, from care, from shared effort.

And within this care, one glimpses her vision, almost directorial at times. Perhaps that’s why writing arrived now, as a natural continuation of her path: Ti racconto il mio cinema is not a final destination, but a gesture of restitution. A way to make visible what is often left out of frame. A choice of clarity in a time of confusion.

 

Unfitting: When the Body Becomes a Target

Unfitting marks Giovanna Mezzogiorno’s debut as a director and screenwriter. In just nine minutes, she tells a lucid, deeply personal story about a cruel and ordinary reality: the constant judgment passed on women’s bodies. Not the kind screamed across social media or hyped by tabloids, but the quieter, more insidious kind that operates in silence—in hallways of power, even behind the scenes of the film industry.

The film follows an actress, played by Carolina Crescentini, who endures a barrage of comments, innuendo, and gratuitous cruelty. The director, the producer, the agent, the press office—everyone has something to say: an unsolicited piece of advice, a veiled critique masked as concern. Only a young actor, played by Massimiliano Caiazzo, manages to break the spell and offer a voice of dissent. It’s a bitter but also ironic parable. There is no self-pity—rather, a disarming clarity: Unfitting exposes a toxic system with surgical lightness, avoiding didactic tones and letting silences, glances, and the unsaid speak louder than words.

The short film originated from an idea by Silvia Grilli, editor-in-chief of Grazia, and was produced by One More Pictures in collaboration with Bulgari, a brand known for its commitment to inclusion and women’s empowerment. But more than anything, it was born of a real wound. After her pregnancies, Mezzogiorno was excluded from certain roles, sidelined, judged for a body that no longer conformed to dominant beauty standards. A real body—one that ages, changes, lives. A body that was no longer “acceptable.”

Yet Unfitting is more than a denunciation. It’s an effort to reverse the narrative, to show that body shaming is not just a private or aesthetic issue, but a deeply rooted cultural mechanism. “It’s an aesthetic dictatorship,” says Mezzogiorno, “one that undermines the self-esteem and certainty of many women—not just in cinema, but in every aspect of life.” And she adds: “We need to laugh at it. Not to diminish it, but to avoid being defeated.” Laughter, then, becomes an act of resistance. A tool to defuse violence, to reclaim the body in all its complexity and freedom.

Unfitting is not just an artistic gesture—it’s also a political act. A voice raised against a system that expects women to be always suitable, always young, always desirable according to someone else’s standards. It’s an invitation—for everyone—to break the silent complicity with which these standards are too often accepted. To reject the idea that there is only one right way to look, and therefore to be.

If cinema can still play an educational and transformative role, works like this are proof. Short, essential, sharp, Unfitting doesn’t aim for easy applause, but sows questions, opens cracks. And it shapes, with modesty and courage, a new narrative of the female body—one that is finally free, imperfect, and all the more necessary because of it.

 

Ph Saverio Ferragina