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michelangelo tagliente 

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Silvana Mangano: la bellezza dietro il vetro

2025-08-19 12:56

michelangelo tagliente

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Silvana Mangano: la bellezza dietro il vetro

La tua bellezza amara: che si offre, incombente...

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«La tua bellezza amara: che si offre, incombente, come una teofania, uno splendore di perla; mentre in realtà, tu sei lontana».
Così Pier Paolo Pasolini descriveva Silvana Mangano in una lettera aperta pubblicata su Tempo illustrato nel 1968. Parole che sembrano cogliere un mistero che il cinema, per quanto potente, non riuscì mai a possedere del tutto. Un volto, un corpo, una presenza che si donavano allo sguardo, e tuttavia restavano altrove, come schermati da una lastra di vetro. È in questo scarto – tra apparizione e distanza – che si annida la grandezza di un’attrice che non fu mai semplicemente diva, ma enigma.

Un destino in chiaroscuro

Nata a Roma nel 1930, figlia di padre siciliano e madre inglese, Silvana Mangano portava già in sé una duplicità: tratti mediterranei e ombre nordiche, solarità e malinconia. Da adolescente studia danza, sogna la scena, si affaccia al cinema quasi per caso. Il successo arriva con fragore nel 1949: Riso amaro di Giuseppe De Santis la consegna al mito, in un ruolo che fonde neorealismo e sensualità hollywoodiana. La mondina dai pantaloncini corti e dalle calze autoreggenti diventa immediatamente icona di un’Italia che vuole scrollarsi di dosso la miseria, senza però smettere di riconoscere le proprie contraddizioni.

Il corpo e l’anima

Il cinema le chiede di incarnare insieme eros e dolore, desiderio e sacrificio. In Anna (1951) di Alberto Lattuada è la suora con un passato da ballerina di night, divisa tra vocazione e passione: memorabile la sequenza in cui danza sulle note di El negro zumbón, simbolo di una femminilità che non accetta di essere repressa. Negli anni successivi, con L’oro di Napoli di De Sica e La grande guerra di Monicelli, la Mangano mostra un talento capace di oltrepassare ogni cliché di “maggiorata”: nei suoi personaggi traspare sempre una tensione interiore, un’inquietudine che scava nel profondo.

L’incontro con gli autori

La vera svolta arriva con Visconti e Pasolini. Con il primo, in Morte a Venezia (1971), è la madre del giovane Tadzio: figura quasi silenziosa, ma magnetica, cornice di un’estetica di decadenza che il suo volto severo sublima in icona. Con il secondo, in Edipo re e Teorema, diventa madre arcaica e borghese annoiata, personaggio allegorico e corpo vulnerabile. Pasolini le scrive parole d’amore e di stima: la riconosce come creatura che non recita, ma esiste, portando sullo schermo la verità di una presenza insieme terrena e metafisica.

Un’antidiva malinconica

Silvana Mangano non cercò mai la mondanità. Moglie di Dino De Laurentiis, madre di quattro figli, visse a lungo nell’ombra, lontana dai riflettori, apparendo solo quando i film lo meritavano davvero. Fu antidiva per vocazione: distante dalle etichette, schiva con i giornalisti, incapace di giocare il ruolo della star. Ogni suo ritorno sugli schermi – da Lo scopone scientifico di Comencini a Gruppo di famiglia in un interno di Visconti – appariva come un dono raro, più che come tappa di carriera.

La ferita e l’assenza

Gli ultimi anni furono segnati dal dolore: la perdita del figlio Federico in un incidente aereo, la malattia, la separazione. Eppure, trovò ancora la forza di lavorare: un’apparizione in Dune di David Lynch, poi Oci ciornie di Nikita Michalkov accanto a Mastroianni, quasi a chiudere un cerchio. Morì a Madrid nel 1989, a soli cinquantanove anni.

Il mistero che resta

Riguardando oggi i suoi film, colpisce quella lontananza che Pasolini aveva descritto. Silvana Mangano non fu mai completamente presente: la sua bellezza non era possesso ma enigma, la sua recitazione non era concessione ma rivelazione. Un’apparizione che resiste al tempo perché custodisce un segreto.

Forse è proprio questo il cuore del suo fascino: la sensazione che, dietro il vetro, ci fosse sempre un altrove. Un luogo dove lo spettatore non può entrare, ma che continua ad attrarlo. È lì che vive ancora Silvana Mangano: fragile e imperiosa, donna e mito, per sempre amata e inafferrabile.

 

Silvana Mangano: Beauty Behind the Glass

“Your bitter beauty: offering itself, looming, like a theophany, a pearl-like splendor; while in reality, you are distant.”
With these words, published in an open letter on Tempo illustrato in 1968, Pier Paolo Pasolini captured the essence of Silvana Mangano. A mystery that cinema, despite its power, could never fully contain. A face, a body, a presence that gave itself to the gaze, yet remained elsewhere, as if shielded by a pane of glass. It is in this gap – between appearance and distance – that lies the greatness of an actress who was never simply a star, but an enigma.

A destiny in chiaroscuro

Born in Rome in 1930 to a Sicilian father and an English mother, Silvana Mangano carried within herself a dual nature: Mediterranean features and northern shadows, brightness and melancholy. As a teenager she studied dance, dreaming of the stage, before stumbling into cinema almost by chance. Fame struck suddenly in 1949: Bitter Rice by Giuseppe De Santis elevated her to myth, in a role that fused neorealism with Hollywood sensuality. The young rice worker in short shorts and stockings instantly became an icon of an Italy eager to shed poverty, yet still caught in its contradictions.

Body and soul

Cinema asked her to embody both eros and suffering, desire and sacrifice. In Anna (1951) by Alberto Lattuada, she played a nun with a past as a nightclub dancer, torn between vocation and passion: the unforgettable scene of her dancing to El negro zumbón symbolized a femininity that refused to be repressed. In the following years, with The Gold of Naples by De Sica and The Great War by Monicelli, Mangano revealed a talent capable of breaking beyond clichés: her characters always bore an inner tension, a profound unease.

The encounter with the auteurs

The real turning point came with Visconti and Pasolini. With the former, in Death in Venice (1971), she was Tadzio’s mother: a nearly silent yet magnetic figure, her austere face sealing Visconti’s aesthetic of decadence. With the latter, in Oedipus Rex and Teorema, she embodied both archaic mother and disenchanted bourgeois, allegory and vulnerability. Pasolini wrote to her with love and admiration: he recognized her as a being who did not act, but existed, bringing to the screen a truth both earthly and metaphysical.

A melancholy anti-diva

Silvana Mangano never sought glamour. Married to Dino De Laurentiis, mother of four children, she lived largely in the shadows, away from the spotlight, appearing only in films that truly deserved her. She was an anti-diva by choice: distant from labels, elusive with the press, unwilling to play the star. Each of her returns to the screen – from Comencini’s The Scientific Cardplayer to Visconti’s Conversation Piece – felt like a rare gift, rather than a mere career step.

Wounds and absence

Her final years were marked by pain: the loss of her son Federico in a plane crash, illness, and separation. Yet she still found the strength to work: a brief role in David Lynch’s Dune, then Nikita Mikhalkov’s Dark Eyes alongside Mastroianni, as if closing a circle. She died in Madrid in 1989, at just fifty-nine.

The mystery that remains

Watching her films today, one still perceives that distance Pasolini described. Silvana Mangano was never fully present: her beauty was not possession but enigma, her acting not concession but revelation. An apparition that survives time because it guards a secret.

Perhaps this is the core of her fascination: the feeling that, behind the glass, there was always an elsewhere. A place the spectator cannot enter, yet remains drawn to. It is there that Silvana Mangano still lives: fragile and imperious, woman and myth, forever loved and forever elusive.

 

Photo credits

Lo scopone scientifico (1972) - Luigi Comencini (director), De Laurentis Inter. Ma. Co. (production), Public domain, via Wikimedia Commons

Unknown (Mondadori Publishers), Public domain, via Wikimedia Commons