
In un’epoca in cui la connessione è continua e il confine tra presenza fisica e presenza digitale si fa sempre più sottile, cresce il numero di persone che scelgono consapevolmente di disconnettersi. È il fenomeno del digital detox, la disintossicazione digitale: una pausa dai dispositivi, dai social, dalle notifiche, per ritrovare un rapporto più sano con la tecnologia e più autentico con se stessi e con gli altri.
Le forme sono diverse: c’è chi si impone ore di offline ogni giorno, chi spegne il telefono nel fine settimana, chi partecipa a ritiri senza Wi-Fi. Ma tra tutte le espressioni di questo bisogno emergente, una delle più interessanti arriva da Amsterdam e si chiama Offline Club. Non si tratta solo di rinunciare allo smartphone: si tratta di riscoprire il tempo reale, quello che si condivide guardandosi negli occhi, leggendo, scrivendo, parlando, giocando — senza alcun filtro digitale in mezzo.
Il loro motto è chiaro: “Swap screen time for real time”. Un invito semplice, ma dirompente, in un mondo dove l’attenzione è continuamente sollecitata e monetizzata. Gli Offline Club non propongono un ritorno nostalgico al passato, ma un’alternativa concreta al presente iperconnesso: spazi protetti dove il telefono si spegne e la vita si accende. Dove l’incontro torna a essere un’esperienza piena, e non una storia da postare.
Una rivoluzione gentile che parte dal gesto più semplice
Spegnere il telefono. O metterlo in modalità aereo. Nessun obbligo, solo un invito. È così che si entra negli Offline Club: disarmandosi. All’ingresso non c’è controllo, ma cura. Piccole scatole raccolgono gli smartphone, come si depongono le armi all’inizio di un rito. Da quel momento, si apre un tempo diverso: non più frammentato, ma fluido. Non più interrotto, ma abitato.
Le attività proposte sono libere e intuitive: leggere un libro, costruire un puzzle, disegnare, scrivere a mano, chiacchierare con uno sconosciuto. E se non si fa nulla, va bene lo stesso. Non c’è pressione a “produrre esperienza”, come spesso accade nella socialità mediata dai social. C’è solo la possibilità di esistere. E di farlo insieme.
A BASE Milano, uno degli spazi culturali più vivaci della città, gli eventi firmati Offline Club registrano spesso il tutto esaurito. Il pubblico è trasversale, ma con una significativa presenza di giovani adulti. Non è un paradosso: è proprio la generazione più immersa nell’iperconnessione a manifestare un desiderio più forte di disintossicazione. Dopo gli anni della pandemia, in cui lo schermo è diventato unica finestra sul mondo, la voglia di uscire da quella soglia luminosa è diventata esigenza collettiva. E politica, nel senso più nobile: riguarda il modo in cui vogliamo abitare il mondo insieme agli altri.
Un nuovo alfabetismo relazionale
Chi ospita un evento Offline Club — in un bar, in una biblioteca, in un centro culturale — non lo fa per dettare regole, ma per offrire possibilità. Dopo una breve formazione, chiunque può diventare host, contribuendo alla costruzione di una rete diffusa di comunità temporanee basate sulla presenza, sull’ascolto e sulla sospensione del giudizio. Non c’è nostalgia nel gesto del disconnettersi, ma semmai lungimiranza: il desiderio di non lasciare la nostra umanità interamente appaltata alle piattaforme.
Lo smartphone non è il nemico. Ma va riconosciuto per quello che è: uno strumento. E come ogni strumento, può diventare una prigione quando se ne perde la misura. Gli Offline Club non propongono un ritorno al passato, ma un salto laterale nel presente.
Riaccendere la vita, un incontro alla volta
Nel suo libro L’elogio della lentezza, lo scrittore canadese Carl Honoré raccontava come rallentare non significhi fare di meno, ma vivere meglio. Gli Offline Club mettono in pratica questa visione: rallentano la corsa per restituire senso al gesto, profondità alla relazione, peso all’istante.
Non servono grandi discorsi: basta esserci. Con attenzione, con presenza, con il coraggio di sostenere uno sguardo senza schermo in mezzo. È lì che succede qualcosa. È lì che si accende, di nuovo, l’arte dell’incontro.
Offline Club: The Art of Encounter in the Age of Perpetual Connection
In an era of continuous connection, where the line between physical and digital presence is increasingly blurred, more and more people are choosing to disconnect. This is the essence of digital detox — a voluntary break from devices, social media, and notifications to restore a healthier relationship with technology and a more authentic one with ourselves and others.
There are many ways to approach it: some people schedule daily offline hours, others switch off their phones over the weekend, or join retreats without Wi-Fi. But among the many expressions of this growing need, one of the most compelling comes from Amsterdam. It’s called Offline Club. And it’s not just about giving up your phone — it’s about rediscovering real time. Time spent looking someone in the eyes, reading, writing, talking, playing — with no digital filter in between.
Their motto is clear: “Swap screen time for real time.” A simple but disruptive invitation in a world where our attention is constantly solicited and monetized. Offline Clubs don’t offer a nostalgic return to the past, but a concrete alternative to our hyperconnected present: safe spaces where the phone is switched off, and life switches on. Where human connection is once again a full experience, not just a story to post.
A gentle revolution, starting from the simplest gesture
Turn off your phone. Or switch to airplane mode. There are no rules, just an invitation. That’s how you enter an Offline Club: by disarming yourself. There’s no control at the door, only care. Smartphones are placed in small boxes — as if setting down weapons at the start of a ritual. From that moment on, time flows differently: no longer fragmented, but fluid. No longer interrupted, but inhabited.
The activities are free and intuitive: read a book, build a puzzle, draw, handwrite, or chat with a stranger. And if you do nothing at all, that’s perfectly fine. There’s no pressure to “create content,” as often happens in social media-driven interactions. Just the possibility to exist. And to do it together.
At BASE Milano — one of the city’s most vibrant cultural hubs — Offline Club events often sell out. The audience is diverse, with a strong presence of young adults. It’s no paradox: it’s precisely the generation most immersed in hyperconnection that expresses the strongest desire for disconnection. After the pandemic, when screens became our only window to the world, the urge to step away from that glowing threshold became a shared, even political, need — in the truest sense: about how we want to live together in the world.
A new relational literacy
Hosting an Offline Club event — whether in a café, a library, or a cultural center — isn’t about enforcing rules but about opening up possibilities. After a short training, anyone can become a host and contribute to building a network of temporary communities grounded in presence, listening, and non-judgment. There’s no nostalgia in disconnecting — only foresight. A desire not to outsource our humanity entirely to digital platforms.
The smartphone isn’t the enemy. But it needs to be seen for what it is: a tool. And like any tool, it becomes a prison when we lose perspective. Offline Clubs aren’t calling for a step back in time, but rather a sideways leap into the present.
Reigniting life, one encounter at a time
In his book In Praise of Slow, Canadian writer Carl Honoré reminds us that slowing down doesn’t mean doing less — it means living better. Offline Clubs bring that vision to life: they slow the pace so that gestures regain meaning, relationships gain depth, and the moment regains its weight.
There’s no need for big speeches: all it takes is to show up. With attention, with presence, with the courage to hold someone’s gaze without a screen in between. That’s where something shifts. That’s where, once again, the art of encounter lights up.
Ph credit
Mathieu BROSSAIS, CC BY 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/4.0>, via Wikimedia Commons
FrussiWMI, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia