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michelangelo tagliente 

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Ivano Fossati: il silenzio come atto d’autore

2025-11-13 10:31

michelangelo tagliente

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Ivano Fossati: il silenzio come atto d’autore

Fossati ha scelto di smettere non per esaurimento creativo, ma per lucidità

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Nel 2019, dopo l’uscita dell’album con Mina, Ivano Fossati ha confermato la sua decisione di abbandonare definitivamente la scena musicale. In realtà, il suo ritiro era iniziato già nel 2012, dopo l’annuncio del 2011 che lo avrebbe visto dire addio alle esibizioni dal vivo e alla pubblicazione di nuovi dischi. Il progetto con Mina rappresenta un’eccezione, un ritorno episodico che sembrava promettere un incontro al vertice tra due protagonisti assoluti della canzone italiana. Alla prova dei fatti, però, il disco si è rivelato meno incisivo del previsto. Tolti alcuni brani davvero ispirati, l’album si muove su territori troppo prevedibili, con testi dignitosi ma mai memorabili e interpretazioni che, pur tecnicamente ineccepibili, non lasciano il segno — in particolare quella di Mina, e non sembri lesa maestà. Il risultato è un’opera che non riesce a imporsi né come pop sofisticato né come autentica testimonianza autoriale. Un epilogo che non lascia traccia, ma che forse proprio per questo conferma la necessità del distacco.

Fossati ha scelto di smettere non per esaurimento creativo, ma per lucidità. “Quello che potevo dire l’ho detto”, ha dichiarato con una serenità che appartiene solo a chi ha vissuto la musica come vocazione e non come mestiere. La sua è stata una scelta meditata, consapevole, e per certi versi controcorrente: abbandonare il palco quando si è ancora in grado di abitarlo con autorevolezza. Oggi si dedica alla composizione per pianoforte, alla sperimentazione elettronica, al blues. Non ha scadenze né obblighi. È un artista che ha scelto di essere il proprio committente.

Ma quel silenzio non nasce dal vuoto. È figlio di una lunga stagione di parole e suoni che hanno lasciato un segno profondo. Due dischi, in particolare, ne sono la testimonianza più alta: “La pianta del tè” (1988) e “Discanto” (1990). Non sono soltanto tra i vertici della produzione di Fossati, ma rappresentano due capolavori assoluti della musica italiana.

 

“La pianta del tè”: il viaggio come forma di pensiero

“La pianta del tè” è un disco che segna l’inizio della stagione più luminosa e consapevole di Fossati. Qui il cantautore genovese abbandona le spigolosità degli esordi e si apre a una scrittura musicale colta, stratificata, capace di fondere suggestioni etniche e raffinatezze occidentali. L’album è costruito come un viaggio, non solo geografico ma interiore, dove ogni brano è una tappa di esplorazione e scoperta.

La title track, divisa in due parti, è un esempio magistrale di ambientazione sonora: flauti andini, percussioni inquietanti, atmosfere lunari. Ma è “La costruzione di un amore” a segnare il passaggio definitivo verso una nuova sensibilità. Già nota nella sua versione tormentata e contorta, qui Fossati la ripropone in una forma cristallina, impeccabile, che ne esalta la profondità emotiva e la potenza melodica. È il punto in cui la sua scrittura raggiunge una sintesi perfetta tra intensità e misura.

Ogni brano dell’album è costruito con una cura quasi artigianale. “L’uomo coi capelli da ragazzo” è una meditazione sulla solitudine e sulla malattia, resa con un minimalismo sonoro che amplifica la tensione emotiva. “La volpe”, con il controcanto di Teresa De Sio, è una filastrocca inquieta e mediterranea, mentre “Questi posti davanti al mare”, impreziosita dalla presenza di De André e De Gregori, è una celebrazione del paesaggio e della memoria. Anche i brani meno noti, come “Le signore del Ponte-Lance” o “Caffè lontano”, rivelano una scrittura musicale e poetica di altissimo livello, capace di evocare mondi con pochi tocchi.

 

“Discanto”: il peso delle parole, la grazia della musica

Con Discanto, Fossati porta la sua ricerca musicale a un livello ancora più profondo. È un disco complesso, intriso di riferimenti letterari e strutturalmente esigente, che si colloca deliberatamente al di fuori di qualsiasi logica di mercato. Qui la canzone diventa forma aperta, capace di accogliere la storia, la filosofia, la psicanalisi. “Lunario di Settembre”, ispirata a una sentenza di condanna per stregoneria del XVII secolo, è una composizione teatrale e drammatica, dove la musica salva il testo dalla sua gravità. “Confessioni di Alonso Chisciano” è una rilettura moderna e inquieta del mito di Don Chisciotte, in cui la lucidità si trasforma in turbamento. Il climax emotivo, costruito dalla profondità melodica e dalle parole «Giro nel mio deserto e sto tranquillo, ho solo il vento per barriera», vale da solo quanto gran parte della discografia italiana dell’ultimo decennio.

Ma “Discanto” non è solo cerebralità. Brani come “Passalento”, con il suo oboe dolente e le percussioni africane, raggiungono una intensità emotiva rara. “Italiani d’Argentina” riflette sull’identità e sull’esilio con una delicatezza che ricorda le milonghe di Paolo Conte. La title track, con il suo ritmo incalzante e il testo disilluso, è una dichiarazione di intenti: Fossati non cerca consolazioni, ma verità. E anche nei brani più brevi e apparentemente leggeri, come “Unica rosa” o “Albertina”, si percepisce una profondità che va oltre la forma.

Il silenzio di Fossati non è una rinuncia: è il punto d’arrivo di un percorso che ha già detto tutto, con rigore, con grazia, con visione. La pianta del tè e Discanto non sono soltanto due dischi da ricordare: sono due opere che continuano a parlare, anche ora che le parole di Fossati hanno smesso di cercare il mondo. Ma resta il suono della sua musica, e con essa la speranza di un ultimo, grande regalo.

 

Ivano Fossati: Silence as an Act of Authorship

In 2019, following the release of his album with Mina, Ivano Fossati confirmed his decision to permanently step away from the music scene. In truth, his withdrawal had already begun in 2012, after announcing in 2011 that he would retire from live performances and stop releasing new records. The project with Mina was an exception—a one-off return that seemed to promise a summit meeting between two leading figures of Italian songwriting. In practice, however, the album proved less impactful than expected. Aside from a few truly inspired tracks, it moves across overly predictable terrain, with lyrics that are respectable but never memorable, and performances that, while technically flawless, fail to leave a lasting impression—especially Mina’s vocals, and this is said with all due reverence. The result is a work that doesn’t manage to assert itself either as sophisticated pop or as a genuine authorial statement. A farewell that leaves little trace, but perhaps precisely for that reason, confirms the necessity of stepping away.

Fossati chose to stop not out of creative exhaustion, but out of clarity. “What I had to say, I’ve said,” he declared, with the serenity of someone who has lived music as a vocation, not a profession. His was a deliberate, conscious, and in many ways countercultural decision: to leave the stage while still able to inhabit it with authority. Today, he devotes himself to piano composition, electronic experimentation, and blues. He has no deadlines, no obligations. He is an artist who has chosen to be his own commissioner.

But that silence does not come from emptiness. It is the result of a long season of words and sounds that left a deep mark. Two albums, in particular, stand as its highest testimony: La pianta del tè (1988) and Discanto (1990). Not only are they among the peaks of Fossati’s production—they are two absolute masterpieces of Italian music.

 

La pianta del tè: The Journey as a Way of Thinking

La pianta del tè marks the beginning of Fossati’s most luminous and self-aware creative phase. Here, the Genoese singer-songwriter leaves behind the angularity of his early work and embraces a cultured, layered musical writing, capable of blending ethnic influences with Western sophistication. The album is structured as a journey—not just geographic, but interior—where each track is a stage of exploration and discovery.

The title track, divided into two parts, is a masterclass in sonic atmosphere: Andean flutes, unsettling percussion, lunar textures. But it is La costruzione di un amore that signals the definitive shift toward a new sensibility. Already known in its tormented and contorted original version, here Fossati reinterprets it in a crystalline, flawless form that enhances its emotional depth and melodic power. It’s the moment where his songwriting achieves a perfect synthesis of intensity and restraint.

Each track on the album is crafted with near-artisanal care. L’uomo coi capelli da ragazzo is a meditation on solitude and illness, rendered with sonic minimalism that heightens emotional tension. La volpe, featuring Teresa De Sio’s counterpoint vocals, is a haunting Mediterranean nursery rhyme, while Questi posti davanti al mare, enriched by the presence of De André and De Gregori, is a celebration of landscape and memory. Even the lesser-known tracks, like Le signore del Ponte-Lance or Caffè lontano, reveal a musical and poetic writing of the highest caliber, capable of evoking entire worlds with just a few strokes.

 

Discanto: The Weight of Words, the Grace of Music

With Discanto, Fossati takes his musical exploration even further. It is a complex album, steeped in literary references and structurally demanding, deliberately positioned outside any market logic. Here, the song becomes an open form, capable of embracing history, philosophy, and psychoanalysis. Lunario di Settembre, inspired by a 17th-century witchcraft trial sentence, is a theatrical and dramatic composition where music redeems the gravity of the text. Confessioni di Alonso Chisciano is a modern and unsettling reinterpretation of the Don Quixote myth, where lucidity turns into disquiet. The emotional climax, built through melodic depth and the line “I wander in my desert and I’m at peace, I have only the wind as a barrier,” is worth more than much of the last decade of Italian songwriting.

But Discanto is not all cerebral. Tracks like Passalento, with its mournful oboe and African percussion, reach a rare emotional intensity. Italiani d’Argentina reflects on identity and exile with a delicacy reminiscent of Paolo Conte’s milongas. The title track, with its driving rhythm and disenchanted lyrics, is a statement of intent: Fossati seeks no consolation, only truth. Even the shorter, seemingly lighter songs, like Unica rosa or Albertina, carry a depth that transcends form.

Fossati’s silence is not a renunciation—it is the culmination of a path that has already said everything, with rigor, with grace, with vision. La pianta del tè and Discanto are not just albums to remember: they are works that continue to speak, even now that Fossati’s words have stopped seeking the world. But the sound of his music remains—and with it, the hope for one last, great gift.

 

photo credits:

mat's eye, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

Gianni, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons